CRITICS

APPARIZIONI

Sono apparizioni quelle di Antonio d’Amore. Colori, luci, scritture appaiono e irrompono tra le pieghe della superficie stratificata, come memorie dal sottosuolo. Le immagini scivolano da un piano all’altro, tra astrazioni geometriche, profondità spaziali e campiture cromatiche. Ogni opera vive di sussulti, di lampi improvvisi, di nascondimenti e di svelamenti. C’è sempre una scoperta da inseguire, un’epifania da raccontare. Nascono dal profondo i bagliori che riempiono la scena. Le quinte teatrali vanno esplorate con occhio vigile, si scorgeranno frammenti di un fondale luminoso che traspare tra le finestre sagomate. E ogni traccia di pittura, quella sì, è un’apparizione.

La terza dimensione è un palcoscenico dello sguardo, così come la pittura è un inganno dell’occhio. Antonio d’Amore fa il narratore di mondi, di geografie, di territori dell’anima. Le superfici pittoriche hanno velature di colore, gocciolamenti. Sono storie che si interrompono per poi ricominciare. La pittura nella pittura è come il teatro nel teatro. Racconta di se stessa, si idealizza e si sublima. Ma il pittore è colui che si sporca le mani, che entra nell’opera con tutta la sua personalità, con il suo vigore e il suo ingegno.

Le linee di fuga sono traiettorie del pensiero, sono tracce che arrivano al limite. Sono segni che tagliano l’opera. Vietato sporgersi al di là del visibile. Si verrebbe attratti nel vortice astratto.

2020

l’Arte dell’inganno

“l’uomo è misura di tutte la cose” dicevano i sofisti greci riflettendo sulla ricerca della verità. E’ l’uomo il grande “artefice”: che crea e distrugge i propri manufatti, modificando la natura a proprio piacimento; che scrive la storia e genera la cultura, o meglio “le culture” dei popoli.

Così sull’altare di una delle più belle chiese sconsacrate del mondo, all’interno del Complesso Monumentale dell’Annunziata, immagine simbolo di Ravello e della Costiera Amalfitana, figura l’opera “Mind” di Antonio d’Amore: il cervello umano, ciò da cui “tutto” ha avuto origine. L’ex Chiesa dell’Annunziata è una location ideale per assaporare i capolavori artistici di questo giovane e promettente talento del panorama contemporaneo italiano: un autentico luogo dello spirito, denso di storia e sacralità. Lungo le pareti della maestosa navata, grandi dipinti su tela dai colori sgargianti si alternano alle finestre ad arco, che si aprono su uno dei paesaggi più celebri della Costiera. Opere che catturano l’attenzione del visitatore, dapprima per il suggestivo impatto cromatico e, subito dopo, per l’affascinante racconto che dischiudono sull’”ingannevole” vicenda umana.

L’arte è sublime mistificazione, e attraverso l’arte d’Amore celebra il grande “mistificatore”: l’essere umano, che da sempre ha posto principi e scale valori, con alterne fortune ed esiti incerti; spesso per mascherare gli istinti più bassi e la brama di potere; per giustificare o consolidare modelli di prevaricazione degli uni sugli altri (“Doppia strage”).

L’artista campano sembra volerci dimostrare che ogni umana “verità”, quanto più fortemente gridata, invocata, imposta, “comunicata” (attraverso linguaggi testuali o iconici, che pretendono di certificarla), tanto più pare reggersi sul nulla, sull’illusione, sull’”inganno” (consapevole o meno), che l’uomo ha perpetrato e di cui si nutre da sempre.

E così, nelle sue opere, i presunti ed appariscenti linguaggi esplicativi (sovrapposizioni sghembe di immagini, segni, simboli e codici alfa-numerici) diventano enigmatici ed insussistenti; decorazione ambigua per il confezionamento di un messaggio che vuole apparire bello quanto convincente: capace di plagiare le coscienze e di rassicurarle sulla certezza dei valori proposti (o imposti).

Valori etici:  che discriminano il bene dal male, le condotte morali da quelle indecenti (“Vittime di Circe”, “Amore proibito”). Dogmi religiosi, che invocano la “vera” fede e denigrano i falsi miti, separando il sacro dal profano (Exceptional transport, Non bastò Irene, Under burka).  Valori economici: come la moneta e le c.d. “leggi” di mercato (Economy moving). Principi scientifici, su cui si basa la “vera” scienza contro la superstizione (Mind). Canoni estetici, che distinguono il bello dal brutto (“Kouroi”, “ The shame of Venus”, “Venere”).Dottrine politiche, che pongono le “giuste” regole di convivenza civile e gli auspicabili obiettivi sociali. E così via.

Antonio d’Amore, ironico ed eclettico artista di S. M. Capua Vetere, novello Spartaco ribelle di quella che fu la “Capua antica” (in cui ebbe origine la rivolta dei gladiatori schiavi di Roma), ci invita a “dubitare” con umiltà socratica (“so di non sapere”) e senza pregiudizi, di tutto il sistema di credenze di cui siamo “schiavi”. E lo fa nel modo che si conviene ad un grande artista: attraverso una serie di creazioni seducenti, sintesi mirabile di frammenti di arte (sacra e profana) del passato, manipolati e contaminati da scritte ed immagini ammiccanti e trasgressive, proprie dello stile comunicativo dei mass-media contemporanei, dominato dalle tecniche persuasive del linguaggio pubblicitario.

Infondo,  già l’aneddoto biblico del “frutto proibito della conoscenza del bene e del male” (per richiamare il testo sacro più vicino alla cultura occidentale), ci avvertiva che il “peccato originale” dell’uomo, ossia a lui.

2014

I CODICI DELLA VITA

Su ogni immagine una sequenza alfanumerica serve, se non a identificare, quanto meno a connotare. L’immagine riprodotta vive una sua storia, nel ricordo di quello che è già stato. Affiorano miti e testimonianze d’arte del passato, icone del tempo, ricordi congelati. Affiorano come fantasmi incancellabili, patrimonio mentale dell’umanità. E su queste citazioni evocative ecco imprimersi i numeri e le lettere, secondo una logica di analogie e di rimandi, di nomi e di date, di stratificazioni letterarie. Per Antonio d’Amore la riproduzione fotomeccanica di un’immagine consegnata dalla storia è una base iconografica su cui costruire il suo universo pittorico, fatto di colore che si distende sulla tela a ondate, lasciando tracce a volte più dense, altre volte diluite al punto da apparire rarefatte. E di pittura, di pura pittura, sono i codici testuali. I simboli grafici della scrittura diventano così la struttura stessa di ogni opera, ne sono lo scheletro, l’anima, sono i pilastri compositivi. In quelle cifre c’è l’espressione di una ricerca visiva che fa propria la pittura testuale, la pittura scritta. “Venere” o “il messaggero” o i “kuroi” sono elementi del destino, sono immagini scavate tra i magazzini della memoria e utilizzate come narrazioni spazio – temporali. Vivono una vita autonoma, finché la pittura – colore non entra prepotentemente in scena, rimarcando figure e sovvertendo prospettive. Sarà poi la sequenza alfanumerica a dettare le condizioni della visione, a imporre un ritmo di lettura, a legare immagine e tensione emotiva, a sovrapporre i linguaggi e a sperimentare fusioni lessicali, a “scrivere pittura”. E sì, è una pittura tutta da scrivere, legata indissolubilmente al titolo, alla sua ragion d’essere. Cosa rimane delle citazioni della pittura classica o della statuaria greco – romana? Agli occhi di un viaggiatore contemporaneo resta un ricordo intriso di colori ed emozioni, e probabilmente un codice più o meno visibile per l’archiviazione mnemonica. d’Amore rende esplicito tutto il lavoro mentale, nascosto, che sta dietro al rapporto con l’arcaico, con i linguaggi del passato che si aprono alla contemporaneità. Ma non c’è spazio per un compiacimento dell’occhio, i simboli del presente sono la continuità con la storia. Ogni opera non vive un dualismo tra passato e presente, non c’è una dicotomia. C’è piuttosto l’amalgama tra la condizione storica e la proiezione futuribile. Al centro c’è sempre la persona, la sua immagine, il suo vissuto. E a tutto questo rimanda il codice, che è marchio di fabbrica, è titolo e data, che è simbolo di appartenenza. Lettere e numeri sono indissolubilmente legati a quello che solitamente si chiama vita.

2013

Accostata abitualmente all’eredità pop, la pittura di Antonio d’Amore ne accusa tutta la vitale, energica ambiguità. Ma si è fatta nel tempo sempre più sfuggente alle etichettature più corrive e abbordabili. Estremizzando, e dunque stravolgendo, la celebre massima di Marshall McLuhan, d’Amore allestisce “mezzi” di (in)comunicazione sprovvisti di “messaggio”, affollano la tela di monogrammi e sequenze alfanumeriche che sovrastano campiture fosforiche, selvagge, tanto voluttuose allo sguardo quanto tossiche alla mente.

Nello stesso momento in cui sembra affermare, enfatizzare, la sua è un’arte che nega e sottopone la contemporaneità a un severo vaglio critico. Un’arte che fa i conti con la “Tèkne” con quella peculiare, invasiva modalità dell’evoluzione tecnologica che è il linguaggio pubblicitario denunciando lo stesso approccio ambivalente che Platone prescriveva nei confronti del “Phàrmakon”: qualcosa che guarisce e avvelena nell’istante stesso dell’assunzione, generando assuefazione e dipendenza.

Con la sterzata multimediale dell’ultima produzione, quest’impostazione ancipite, problematica, sembra essersi arricchita ed esasperata. C’è dentro Kounellis e Schifano (ma lo Schifano dei “Paesaggi anemici” più ancora di quello delle “Coca-cole”), entrambi portati alle estreme conseguenza. C’è verità e finzione estetica, tradizione e innovazione, costruzione e irrisione, edonismo e inquietudine lisergica. Cyber-punk e Rinascimento. Un cocktail sapido, accattivante, in grado di proiettare senza dubbio l’autore a un livello di fruibilità che trascende la diffusione puramente regionale.

2011